Mostra della scultura ceramica contemporanea alla GNAM di Roma.
- Valentina Primiceri
- 2 ago 2015
- Tempo di lettura: 11 min

Alcune considerazioni sulla mostra della scultura ceramica italiana contemporanea alla GNAM di Roma.
Dal 20 marzo al 7 giugno scorso, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma ha ospitato la mostra La scultura ceramica contemporanea in Italia, curata da Mariastella Margozzi e Nicola Caruso, promossa e patrocinata dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.
Già nel 2012, in occasione dell’intervista rilasciata per We Clay – video-racconto ideato da Jasmine Pignatelli nel 2012 – un’altra protagonista del panorama artistico italiano, Netta Vespignani, gallerista già tra i fondatori dell’Archivio della Scuola Romana e fervida sostenitrice della potenza evocativa della ceramica alla quale dedica varie mostre dagli anni Novanta, aveva auspicato alla realizzazione di una “mostra istituzionale” che assegnasse il giusto riconoscimento ad un’arte da sempre relegata ad un mero ruolo di secondo piano.
Tra gli artisti apprezzati e menzionati in quell’occasione dalla Vespignani figurava certamente anche il maestro Nicola Caruso che, durante la presentazione dell’esposizione avvenuta lo scorso marzo, ha sottolineato come sia mancata, ad oggi, una seria e completa ricognizione dell’opera ceramica in Italia, auspicando ad futuro interessamento per questa pratica millenaria da parte degli studiosi e dei critici d’arte. La stessa co-curatrice Mariastella Margozzi ha tenuto a precisare come questa mostra sia stata “fortemente voluta” da Caruso che si è impegnato a selezionare, organizzare e raccogliere le 180 opere realizzate da artisti contemporanei presenti sul territorio, tutti accomunati dalla scelta di avvalersi di una tecnica fortemente legata alla tradizione italiana ed ancor prima italica.
L’allestimento della mostra, progettato da Massimo Licoccia, non ha seguito un ordine di tipo cronologico; non è stata scelta neanche una disposizione meramente geografica che ripercorresse l’Italia dal nord al sud, passando per le isole, seguendo i luoghi di provenienza di quelle realtà locali che formano oggi il composito panorama della scultura ceramica contemporanea italiana. Durante la serata inaugurale è stata proprio Mariastella Margozzi a specificare che la “sensibilità artistica” è stato il concetto organizzativo delle sale, con l’intento di dare origine ad un percorso espositivo capace di valorizzare le molteplici possibilità della materia attraverso differenti gradi ed esperienze di sperimentazione tecnica, raggiungendo di volta in volta gradi di percettibilità variabile a seconda delle personalità artistiche.
Malgrado l’apprezzabile quantità di artisti provenienti da tutta la penisola – sessanta artisti divisibili in tre approssimativi gruppi generazionali a partire dagli anni Cinquanta – che ne ha fatto un evento sicuramente rilevante sotto il profilo della completezza, riscontrare qualche inaspettato grande assente del calibro di Giacinto Cerone, Mimmo Paladino o Luigi Mainolfi, tanto per citarne alcuni, ha sorpreso gli esperti, ma non solo, del settore. Il motivo della scelta è rintracciabile probabilmente dall’intento chiarito in fase di presentazione, di raccogliere l’opera di artisti-artigiani del settore che abbiano avuto un diretto e quasi esclusivo contatto con il processo produttivo dell’opera ceramica, scegliendo di lavorare univocamente in questa direzione. Secondo il parere di molti, tuttavia, questo non giustifica completamente la mancanza di alcuni grandi nomi dell’arte che hanno partecipato attivamente nella rivalutazione di una tecnica che richiede da tempo maggior attenzione da parte della critica in un’ottica inclusiva invece che esclusiva.
L’evento è nato in concomitanza delle celebrazioni per il centenario dalla nascita di Leoncillo Leonardi, maestro indiscusso della ceramica contemporanea, al quale è stata dedicata la sala d’apertura con una selezione di una decina di opere tra quelle esposte e conservate nei depositi dal museo ospitante, acquisite tra gli anni Quaranta e Settanta.
Oltre alle più celebri Arpia ed Ermafrodito degli anni ’30 del Novecento, sono stati esposti una delicata Testa di donna, permeata ancora dalla forte influenza di Medardo Rosso, Il nibbio e le colombe e Il cervo e i cani. Le tre opere, datate 1939, sono l’emblema di quella tensione emotiva che lo avvicina proprio in quel periodo alla Scuola romana di Scipione e Mafai, esperienza artistica che Roberto Longhi definirà fautrice di un certo “barocchetto decadentistico”. In questo periodo, Leoncillo Leonardi si ispira prevalentemente a quel tema mitologico a lui tanto caro, che abbandonerà solo nel secondo dopoguerra per dedicarsi ad una lucida e sofferta analisi delle tragedie umane scaturite dal secondo Conflitto mondiale. Quest’ultima fase della sua carriera artistica è ben rappresentata dal restante gruppo di opere tra le quali spiccano, per tensione emotiva, un neo-cubista Bombardamento notturno del 1954, con il quale continua a rivelare la sua continua e curiosa attenzione ai movimenti artistici a lui contemporanei, e un emblematico San Sebastiano bianco del 1960, frutto delle ultime ricerche indirizzate ad una visione più intimistica dell’arte che lo aveva portato a indagare, attraverso la materia, «solchi, strappi che sono quelli del nostro essere che esca come il nostro respiro», servendosi dell’esempio della natura, non più nelle forme ma attraverso il suo incessante ed imprevisto processo creativo.
Il percorso della mostra prosegue con i lavori del curatore Nicola Caruso, maestro della ceramica nella generazione del secondo dopoguerra e autore di testi fondamentali per la conoscenza della tecnica quali Ceramica viva e Dizionario illustrato dei materiali e delle tecniche ceramiche, editi da Hoepli tra il 1979 e il 2006.
Le tre opere di Caruso, che aprono quindi al percorso della generazione seguente Leoncillo, a partire dagli anni Cinquanta, sono legate da un’indagine sull’elaborazione del modulo visto nella sua ben nota possibilità di replica pur continuando tuttavia a conservare la propria individualità figurativa. I tre grandi pannelli presenti in mostra, composti da elementi modulari, si pongono come strutture scultoree in dialogo con l’architettura, relazione alla quale Nino Caruso si dedica già dalla fine degli anni Sessanta. La sua ricerca parte dallo studio di elementi e tecniche arcaiche – inaugurati già nel 1985 con la mostra orvietana Omaggio agli etruschi – per approdare all’uso di pratiche esecutive che si aggiornano anche attraverso l’utilizzo di nuovi materiali, come nel caso dello studio dei modelli realizzati in polistirolo espanso dal quale ricava le forme con una macchina di sua invenzione già nella seconda metà degli anni Sessanta. Ne risultano imponenti pannelli di storie geometriche, come in Omaggio a Petra, opera in terracotta del 2005, in cui raffinate composizioni modulari di vibrante vitalità sono impresse in quella materia da lui tanto amata e definita “pacifica”.
Successivamente si apre la strada alle altre eccellenze dell’arte ceramica contemporanea, dallo scomparso Nanni Valentini, con le ricerche spaziali di Gorgone e Medusa e Annunciazione, opere degli anni Ottanta, alle sperimentazioni plastiche di Alessio Tasca che plasma volumi in rapporti di pieni e vuoti grazie ad una speciale trafila di sua invenzione.
Un altro grande protagonista e maestro della ceramica contemporanea, scomparso nel 2002, è il faentino Carlo Zauli. Figura di spicco già dagli anni Cinquanta quando, dopo aver ricevuto numerosi riconoscimenti in campo artistico in Italia, lavora a importanti progetti decorativi in Medio Oriente spingendosi nei decenni successivi fino al Giappone e all’America. Anche nella ceramica industriale tra gli anni Settanta e Ottanta, la sua capacità di sperimentare forme e percezioni ottiche applicate alla materia ceramica segnano la preziosa collaborazione con la fabbrica LaFaenza, influendo sulla diffusione delle sue ricerche tradotte in apprezzati elementi di design. Nelle opere Bianco esploso e Stele, opere realizzate tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, una forza intestina che sembra conservata nella memoria della terra si espande verso la superficie, fino a creare lacerazioni che attraverso le crepe lasciano intravedere la materia grezza, viva e pulsante, contenuta a fatica dai candidi gusci di grès smaltato.
La mostra romana si è dunque configurata come un’esplorazione attenta alle realtà contemporanee, alcune delle quali fanno da scuola ad un valente seguito di giovani – per età o per esperienza – e di già affermati artisti della ceramica che hanno intrattenuto in senso dialogico un vivace contatto con i propri riferimenti artistici e culturali.
Tra questi ultimi, Riccardo Monachesi, scultore romano in ceramica da più di trent’anni, allievo di due dei grandi maestri presenti in mostra: Nino Caruso – dal quale assimila la rigorosa formazione architettonica e la capacità di conservare la personalità della forma – e Nedda Guidi, grande ceramista egubina scomparsa lo scorso aprile a Roma, dalla quale rileva l’amore per le tecniche della tradizione ceramica italiana.
Le tre opere di Monachesi sono il frutto di lunghe ricerche attraverso le quali è giunto alla concezione delle serie Pneuma, Cubi e Aquae che nell’esposizione della GNAM sono state riassunte in tre grandi installazioni realizzate fra il 2003 e il 2015.
In Pneuma, lavoro dalla profonda carica emotiva, la materia si gonfia dall’interno come sospinta dal soffio vitale e generatore dell’aria. La scelta di esporre una sola coppia dei 16 pezzi della collezione, vuole richiamare “un dualismo che rappresenti il lavoro nella sua totalità”, come rivela lo stesso Monachesi. L’artista tiene a precisare che “se i Pneuma sono aria, le Aquae, però, non sono acqua”, lanciando un monito a chiunque pensi di associare in maniera del tutto riduttiva i suoi lavori ai quattro elementi. Aquae è invece un progetto molto più complesso che lega lo stato della materia e la sua forma alla capacità di un’entità vivente di muoversi, variando forma e colore, esternando tutta la sua vitalità nelle crete e negli smalti cangianti.
Sempre da un attento studio sulla variazione della forma nasce l’idea dei Cubi – di cui presenta alla GNAM trenta esemplari su cinquanta –, un lavoro basato sull’accumulo e la ripetizione di una struttura assolutamente originaria e simbolo della perfezione corporea, quale appunto il cubo, che viene alterato, cambiato e trasformato. L’uso attento e consapevole di crete e smalti di diversa natura compartecipa al gioco che fa di questa forma geometrica, teoricamente fissa, un esempio di estrema duttilità, sovvertendone e ampliandone interamente il senso connaturato.
Tra i giovani artisti degni di nota è sicuramente da collocare Jasmine Pignatelli, che ha esposto Outback, Shout e Open, tre gruppi scultorei di argilla realizzati in monocottura ad alta temperatura, che indagano la relazione tra lo spazio reale e la sua percezione. Attraverso la costruzione di forme geometriche create dal modulo, Pignatelli rimescola le regole del rapporto tra elemento e composizione. In Open, ad esempio, sono sufficienti le variazioni assiali degli elementi disposti a croce per creare continue e mutabili esperienze percettive. In Outback, come chiarisce la stessa Pignatelli, si avvale della cultura oltreoceano, nello specifico di quella australiana e del Black Stump, un ceppo nero utilizzato per delimitare la zona civilizzata da quella disabitata del deserto nell’entroterra australiano. Servendosi di questa distinzione fra luogo esterno civilizzato e rassicurante, e “non luogo” interno, terra desolata di eventi ed elementi sconosciuti, crea la rappresentazione di un visionario off-limits entro segnacoli neri che dividono la realtà circostante dall’oscuro processo della creazione artistica. L’andamento delle figure, in posizione instabile, sottolinea l’assenza di un processo definito rimarcandone il continuo divenire.
Un’altra interessante partecipazione è quella di Silvia Celeste Calcagno, giovane artista di Albissola che applica la tecnica della fotoceramica sperimentale all’esperienza video e performativa. In Giovedì, ha documentato diversi momenti di una giornata tra soliloquio ed attesa di un interlocutore che non occuperà mai la sedia vuota di fronte a lei. Utilizzando i frames tratti da una sua video-performance, ha ottenuto una foto-storia di trecento formelle in grès, ognuna dei quali risultante un pezzo unico e non riproducibile in serie.
Se solitudine, introspezione e autocontrollo sono i temi fondanti dell’opera di Calcagno, il guizzo dell’ironia tutt’altro che sottile e iconica pervade l’opera di Sprout (Denis Imberti e Stefano Tasca), un collettivo veneto in continuo divenire. Nato nel 2007 dalle ceneri di una precedente formazione dal nome Seme, attiva dal 2001, sperimenta la materia nell’ottica di una ricerca mentale e culturale prima ancora che stilistica, cavalcando verso un futuro progetto evolutivo che prenderà il nome di Albero. Nel progetto Sprout, il racconto della continua e costante evoluzione sociale non è affidato alla sola ceramica che, contaminata da oggetti ready made apparentemente avulsi dal contesto, induce ad un’ironica considerazione sui “feticci” del nostro tempo. Nell’opera Berlusconi’s Farm del 2014, il refrattario fa da tramite ad un coperchio ed un secchio di alluminio, lasciandosi pervadere nell’engobe dai simboli di una propaganda politica che perde il suo scopo ufficiale per divenire, invece, il germoglio di una riflessione più critica. Medesima è la struttura meditativa offerta da Sexual Vegy e Parcae, rispettivamente del 2013 e del 2014, per le quali un vecchio box in alluminio ed un antico filatoio in legno si introducono nella materia ceramica, plasmabile come il pensiero, portavoce dell’azione rivelata dalle impronte del gesto creativo, chiaramente visibili sulla superficie.
Nel Grande paesaggio 2 e nel trittico Voi siete il sale della terra, opere di Massimo Luccioli, il trasporto emotivo e la forza spiazzante della desolazione dominano i pannelli in terracotta insidiandosi tra le placche della terra. La materia che si sfoglia in superficie, seguendo un andamento perpetuo e direzionale, reagisce in maniera imprevedibile alle sollecitazioni generando continue onde emozionali. Quasi come fossero investite da una forza leggera e costante –al pari della roccia che subisce e si oppone al lavoro perenne degli agenti atmosferici, diventando un prezioso documento del tempo – le opere di Luccioli restituiscono storie di paesaggi lunari in cui la gestualità passionale, seppur a tratti sapientemente contenuta dall’artista, diventa un susseguirsi di flutti potentemente invasivi e improvvise lacerazioni. L’artista tarquiniese sfrutta diverse qualità cromatiche di argille che, cotte in riduzione con forni a legna, creano giochi cromatici di coinvolgente sensibilità plastica.
Molti altri artisti meriterebbero maggior attenzione ma sessanta sono davvero troppi da trattare con le dovute considerazioni in questa sede. Uno tra questi è il caso di Annalisa Guerri, che ha saputo trovare il giusto compromesso fra la leggerezza romantica del paperclay e la solidità aspra e penetrante delle sue strutture arboree in Drunken forest. Quando invece celebra strutture di fragile equilibrio come in Thàuma, propone centinaia di pagine in sottilissima porcellana che si sovrappongono in cumuli bicromatici, piegandosi precariamente sotto il peso della stratificazione del tempo. Sempre il paperclay è la base dalla quale parte l’artista per sperimentare interessanti ricerche nel campo della stampa litografica, giungendo a soluzioni di delicato cromatismo come in Timeline.
In questa esposizione, la potenza evocativa della ceramica si è più volte avvalsa anche della tecnologia, come è accaduto per l’installazione di Nicola Boccini. In Evolution 15.0 ha unito sottili pannelli in porcellana Bone China a led RGB che, attraverso uno speciale software progettato dalla ELES Semiconductor Equipment di Todi, sono in grado di dare una risposta cromatica differente in base al tono di voce captato dal sensore audio. L’opera diventa così un ascoltatore muto, ma comunque ricettivo, capace di stabilire un dialogo con il pubblico.
Cristiana Vignatelli Bruni si è servita invece del supporto audio, invitando alla riflessione sulla condizione sociale della donna sottomessa anche attraverso assurde regole estetiche. In Cinderella’s Dream, associando un’ambientazione sonora ad un massiccio di piedi mutili con tacco in ceramica bianca, molti dei quali già in frantumi, ha restituito una denuncia potente con la violenza del disincanto, ben più seducente della favola sulla donna-oggetto del desiderio, schiava in realtà dell’immagine maschilista. Anche nel caso dell’installazione Riss, la compartecipazione tra elemento sonoro e tecnica ceramica si rivela la struttura preminente. Nata dalla collaborazione tra l’artista romana e il Gruppo Unterwelt, Riss riproduce un’atmosfera di magnetismo estraniante grazie a quattro colonne interattive di grès e smalto che, munite di particolari sensori, attivano un predeterminato suono al passaggio dello spettatore.
Non per tutte le opere esposte, ovviamente, si è rilevato un precipuo coinvolgimento delle tecniche nell’ottica di uno slancio tendente al presente-futuro; molti anzi sono stati gli sguardi, talvolta epigoni, talvolta maturi, al passato più o meno recente.
In tal senso è stata rappresentativa la ceramica candida, attraversata dal segno grafico di garbata sapienza ad opera di Guido De Zan. Rivolgendosi in maniera attenta e proficua ai maestri del passato, l’artista milanese ha restituito un nitore di forme che omaggia le sinuosità di Matisse, come nel Vaso personaggio del 2013, seguendo i rapporti numerici e formali di Melotti, presto individuabili nelle Prospettive del 2014 e ancora più evidenti nei Teatrini – questi ultimi non presenti in mostra–, investendoli di un pacato equilibrio orientale desunto, probabilmente, anche dai lunghi anni di esperienza in una tecnica di origini squisitamente giapponesi qual è quella Raku.
Le opere Sfera Uno, Cubo e Parallelepipedo di Eraldo Chiucchiù ammiccano alle lacerazioni di Fontana, dalle quali esplode la materia nascosta svelata invero senza il rigore di numerici rapporti di pomodoriana memoria, ma con una potenza espulsiva che ricorda più un’eruzione lavica. Si rivela d’un tratto tutta la forza vitale e l’indole fattivo-distruttiva della Terra, sottolineata dalle superfici scabre dell’argilla, le quali ricordano le casuali ossidazioni metalliche di certe inesorabilità atmosferiche sperimentate sul ferro da Richard Serra.
Qualche citazione quasi puntuale delle esperienze concettuali di Nauman insiste in formato ceramica e neon nell’opera di Fabrizio Dusi Alla fine ho detto no, esposta insieme alle due iconiche ceramiche in forma pop tra il ludico e il fumettistico, Face to Face e Blablabla, dello stesso Dusi.
Minore spazio è stato assegnato alle opere di carattere prevalentemente figurativo che hanno comunque rappresentato una fetta della tradizione più accademica, molto attiva nella produzione contemporanea della ceramica italiana.
Nonostante la mostra sia stata un’imperdibile occasione per godere finalmente di una seria perlustrazione del panorama artistico nell’ambito dell’arte ceramica del nostro Paese, alcuni problemi tecnici hanno reso difficoltosa – in alcuni casi addirittura impossibile – una più completa fruizione di questo evento culturale del quale da tempo si sentiva l’esigenza. Disagi quali l’apertura non sempre garantita o la notizia di una possibile proroga, che non si è poi verificata per problemi organizzativi non imputabili alla curatela, sono derivati da evidenti disfunzioni dell’organico interno alla GNAM che non ha potuto garantire assiduamente la presenza di personale con responsabilità di custodia.
A tal proposito, Nicola Caruso ha indirizzato diverse lettere e relativi solleciti al ministro Dario Franceschini, esternando tutto il suo malumore nei riguardi delle istituzioni sorde e assenti nei confronti degli artisti, degli operatori culturali e dei fruitori. Le giuste rimostranze, però, non hanno ancora ricevuto alcuna risposta o giustificazione, nonostante l’ennesima richiesta di attenzione dal parte del maestro e curatore della mostra che si è fatto portavoce del disagio di artisti e visitatori vittime, talvolta, persino di variazioni sull’orario non ufficialmente comunicate.
Foto di Daniele Malantrucco.
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