top of page

Il viaggio nelle Meraviglie: Mirabilia, Miracula, Spectacula

Meraviglia ha il fascino dell’eccezionale, dell’inatteso. È un sentimento insito nell’uomo che si manifesta a contatto con i prodigi della Natura; se la locuzione è riferita a opere d’arte esprime perfezione: “Le Meraviglie si pongono come archetipi, cioè essenze a priori, e insieme come opus, cioè risultato finale - a posteriori – della ricerca conoscitiva e dell’operare umano”[1]. Gli studi di Marcello Fagiolo sono il substrato fondamentale per poter affrontare il tema delle Meraviglie[2]. La stessa idea di “viaggio nelle Meraviglie” nasce dalle sue parole: “Si può avanzare l’ipotesi che da un punto di vista filosofico il ̒viaggio attraverso le Meraviglie̕ costituisca una sorta di itinerario dell’uomo agli dei”[3]. Questo viaggio, inteso come ricostruzione di un processo speculativo, segue una griglia multidisciplinare che abbraccia dapprima Filosofia e Scienza per poi approdare all’Arte, che si avvale del pensiero filosofico-scientifico per proporre un’Arte della Meraviglia, basata sulle parole-chiave proposte da Fagiolo, l’archetipo che diviene opus, l’idea che si tramuta in materia. Per giungere a questa conclusione, nel viaggio è possibile individuare tre tappe che si rispecchiano negli stessi termini che designano le Meraviglie: Mirabilia, Miracula, Spectacula.


In principio era la Meraviglia: Mirabilia e Miracula

Afferma Le Goff che per comprendere il significato di un termine bisogna rifarsi a un campo primordiale: il vocabolario[4]. Il termine Mirabilia, che nella sua radice mir riconduce al verbo miror (mirari), presuppone non solo un “guardare” con gli occhi, ma soprattutto un richiamare alla mente immagini che assumono il ruolo di metafore visive. Scriveva Antipatro da Sidone:

“Di Babilonia rocciosa le mura percorse da carri / e lo Zeus presso l’Alfeo contemplai, / e quegli orti sospesi, / quel grande colosso del Sole, / delle eccelse Piramidi il travaglio, / il Mausoleo gigantesco; ma quando l’Artemide vidi / alto svettare nelle nubi il tempio, / tutto sbiadito mi parve, pensai che all’infuori dell’Olimpo / Elio giammai tale beltà non vide”[5].


E Luca Contile:


“Il muro efesio e ‘l simulacro eburno / Babilonia, Menfi, Rodi e Faria / e ‘l sepolcro castissimo di Caria / non sono più, se già superbi furno. / Che quanto al breve tempo et al diuturno / resta soggetto, la natura il varia / e lo ritorna in terra in acqua in aria: / sallo il regno di Porsena e di Turno. / Ma gli edifizii che le pure menti / fondati da l’altissimo architetto / già non rimuta il tempo ingrato ed aspro / non son composti di quattro elementi / ma di vertute e di desir perfetto / d’eterno amor, d’angelico diaspro”[6].



Per Antipatro (II sec. a. C.) e Luca Contile (1505-74), il concetto di fondo, seppur esposto in epoche molto distanti fra loro, è il medesimo: non si dà peso alle singole Meraviglie, bensì al loro insieme; ogni Meraviglia assume un ruolo preciso e bilanciato all’interno di un canone che ha il compito di sottolineare quanto l’uomo possa esser “divino” nella realizzazione di architetture (gli edifici “non son composti di quattro elementi / ma di vertute e di desir perfetto”). Questo carattere divino è presente nell’idea di Meraviglia dal momento in cui, in campo filosofico, Platone individua l’Arte della Meraviglia.

“Tutti gli uomini per natura tendono al sapere […]. Essi, sia ora sia in principio, cominciarono a filosofare a causa della meraviglia. […] Chi è nell’incertezza e nella meraviglia pensa di essere nell’ignoranza, perciò anche chi ha propensione per il mito è, in un certo qual modo, filosofo, giacché il mito è un insieme di cose meravigliose” [7].


Il principio della filosofia (e quindi del sapere) esposto da Aristotele nella Metafisica è proprio la meraviglia, ossia il porsi delle domande di fronte ai “miracoli” della vita e della natura. L’uomo che di fronte a un fenomeno - naturale o artificiale - lo percepisce nuovo rispetto a quanto da lui conosciuto in precedenza, è in una situazione di meraviglia. Aristotele spiega, in altre parole, che la meraviglia è la scintilla che fa scoppiare nell’uomo saggio il desiderio di sapere che verrà colmato nel momento in cui trova una risposta. Essa appare dunque un sentimento non di natura estetica ma puramente teoretica, che spinge a chiedersi “il perché” di ciò che gli sta di fronte (il fenomeno) e di cui non ne vede immediatamente la causa. Secoli più tardi Galileo partirà da queste basi per impostare la sua rivoluzionaria teoria basata sull’osservazione quale principio dell’indagine scientifica[8]. Il discorso sulla meraviglia, nato in ambito filosofico e poi traslato in quello scientifico, si dipana abbracciando anche il dibattito sull’origine del mondo. Se Aristotele concepisce un universo senza inizio né fine, ponendolo al di là dei limiti temporali, Platone plasma l’immagine del Demiurgo, un dio che ha fabbricato il mondo per bontà riducendolo all’ordine. La natura è meravigliosa perché è un prodotto dell’arte suprema del Demiurgo, delineato come un artista che modella una materia dando vita a opere d’arte: nasce l’idea di “Arte della Meraviglia”. Sarà questa visione di Platone che porterà Aristotele a tacciare il maestro di antropomorfismo, proprio perché aveva concepito il mondo come la creazione di un dio simile agli artefici umani (che operano con le mani), mentre la natura è talmente perfetta che non può derivare da mano umana[9].

Questo discorso sui fondamenti della filosofia classica aiuta a comprendere il motivo che ha indotto gli antichi ad assegnare il termine “Meraviglie” ad alcuni edifici distribuiti nel bacino del Mediterraneo. Osservando il Planisfero del Blaeu (1640), una summa di Natura e Storia, quest’ultima è rappresentata proprio dalle Meraviglie, paradigmi dell’artificio umano, che acquisiscono il valore universale di produzione eletta sulla Terra sotto il segno del Destino, e di permanenza della costruzione aldilà dei limiti temporali e delle distruzioni[10]. Le Meraviglie si presentano come “artificio divino”, esempi illustri delle potenzialità dell’uomo che infonde in esse tanta perfezione al punto da sfidare le leggi stesse della Natura. In questo modo le Meraviglie entrano a far parte, prima ancora che della storia dell’arte, della storia della scienza e dell’artificio. L’aspetto estetico passa in secondo piano rispetto all’importanza delle novità tecniche. Ciò è insito nel concetto stesso che Brusatin definisce “Arte della Meraviglia”. Seguendo il ragionamento platonico e aristotelico, quest’arte crea, in effetti, produzioni an-estetiche: “l’ambiente è artificiale, la cosa percepita viene da lontano, l’immagine produce effetti giganteggianti, indeterminatezza dell’aspetto”[11]. Coniugando l’innovazione tecnologica delle fabbriche (aspetto pratico-scientifico) alla loro immagine simbolico-poetica (aspetto estetico-artistico), si delinea l’archetipo che comprende entrambi i risvolti.

La natura “divina” dei Mirabilia è la chiave di volta per la comprensione del viaggio proposto da Filone da Bisanzio (III-II sec. a.C.), la fonte più antica, insieme ad Antipatro di Sidone, sulle sette Meraviglie:


“Le sette Meraviglie del mondo sono conosciute per fama da tutti, ma pochi le hanno viste di persona. Occorre fare un lungo viaggio fino in Persia attraverso l’Eufrate, giungere in Egitto e poi in Grecia, andare in Caria e Alicarnasso, navigare fino a Rodi e poi ad Efeso. Solo dopo viaggi sfiancanti per il mondo intero si arriva a soddisfare il nostro desiderio, quando ormai gli anni e la vita se ne sono andati. Perciò è un grande e meraviglioso dono quello della cultura, che libera l’uomo dalla necessità degli spostamenti e gli mostra a casa sua le bellezze della terra, dando occhi all’anima”[12].


L’uomo deve muoversi nel Mediterraneo, spostandosi dall’Egitto (Piramidi e Faro di Alessandria) alla Grecia (lo Zeus di Olimpia e il Colosso di Rodi), per poi addentrarsi nell’antico territorio persiano (Mausoleo di Alicarnasso e Tempio di Artemide ad Efeso) e giungere sulle rive dell’Eufrate (Mura e Giardini pensili di Babilonia). Si tratta di un viaggio soprattutto interiore: “È una sorta di itinerario dell’uomo agli dei composto da architetture simbolicamente funzionali (Mura come chiusura sacra, Giardini come montagna incantata, Teatro come allegoria cosmologica, Faro come segnale di luce e di salvezza), architetture che esaltano il passaggio dal corpo all’anima (Piramidi, Mausoleo) e da monumenti dedicati a una divinità da adorare (Colosso di Rodi, Zeus di Olimpia)”[13]. Nella loro globalità le Meraviglie impongono all’uomo, che tende a Dio, un lungo viaggio che abbraccia tutto il bacino del Mediterraneo orientale (ma non solo) e apre la mente verso la comprensione dell’idea di cultura, identificata proprio con queste opere prodigiose. Seguendo la voce antica di Filone da Bisanzio, bisogna guardare le Meraviglie oltre che col senso della vista, cercando soprattutto di “dare occhi all’anima”. Scrive Panofsky: “Se il compito dell’arte deve essere verità per rapporto alle Idee, in concorrenza quindi con la conoscenza razionale, essa deve di necessità ricondurre il mondo visibile a forme immutabili, generali ed eterne”[14]. Ragionando sul concetto platonico di Idea e sull’applicazione di esso al campo dell’arte, Panofsky sottolinea quanto Platone riconosca degne di nota, seppur nello spazio circoscritto in cui la sua filosofia colloca la creazione artistica, solo quelle opere che riescono a divenire dei modelli eterni e immutabili superando i limiti del tempo. Il valore d’una creazione d’arte non si determina quindi per Platone che secondo il modello teoretico, allo stesso modo d’una proposizione scientifica. Le Meraviglie, dunque, rappresentano il mezzo che l’uomo ha trovato, attraverso la genialità tecnologica, per riproporre l’arte della creazione del Demiurgo platonico, proponendo nuovi modelli a cui far riferimento, archetipi alternativi a quelli della Natura, macchine da una parte e miracoli dall’altra.

Si innesca, fin dall’antichità, quel processo di mescolanza e indistinguibilità fra artificialia e naturalia, entrambi accomunati dal puro senso della meraviglia (incantum). Le Meraviglie, dunque, poiché sfuggono all’immediata comprensione e conservano una scintilla di divinità, appaiono dei Miracula. Esemplare, a questo proposito, è la frase di Cesariano che vede, nei sette spectacula, degli edifici per superuomini realizzati da superuomini:


“I sette spectaculi sono stati chiamati loci publici di varia forma facti como cosa de miranda contemplatione: tenendo in dimora li homini in essi loci gli fa letitia mistica nel animo: remanendo stupefacti et surgendo in maiore atoniti ingegnosità quando considerato hanno la gran magnificentia che procede da li intellecti nostri in le quali habitatione stanno li Heroi maximi et li divini homini adornati di tanta varietà di cose elaborate como fussero stati et divini essi artifici che ivi hanno ornato et operato”.[15]



Permanenza e divenire

Dopo aver varcato i confini dell’antichità con l’esortazione di Filone da Bisanzio a “vedere” le Meraviglie (Mirabilia) e ammirarle in tutta la loro perfezione (Miracula), si approda alla riscoperta del modello nel corso dei secoli, con la speculazione vera e propria (Spectacula).

Gli studi esemplari di Marcello Fagiolo e Maria Luisa Madonna delineano il panorama interpretativo in cui le Meraviglie si muovono tra Quattro e Cinquecento. La filologia umanistica riporta il modello alle sue forme originarie sfrondandolo dalle tante leggende che avevano ricoperto le Meraviglie nel Medioevo. Se personaggi come Cesariano si pongono ancora sul terreno medievale dei Miracula, chiamando “divini” gli artefici di queste fabbriche, altri come Pirro Ligorio vedono le Meraviglie come Templi della Virtù e dell’Onore[16]. Il desiderio di far rinascere la classicità porta a riscoprire la grande potenzialità espressa dal mondo antico in questi Spectacula. Essi conservano i due caratteri della permanenza e del divenire, sono presenti nell’immaginario pur essendo stati nel tempo distrutti, confermando in tal modo la loro natura miracolosa. Anzi, la loro permanenza solo attraverso le fonti antiche stimola due forme di ricomposizione: una ricomposizione oggettiva e una ricomposizione soggettiva, che porta a identificare la Meraviglia con un modello per infinite ricomposizioni e variazioni sul tema[17]. Le nuove Meraviglie nascono quindi coniugando l’immagine tramandata dalle fonti antiche e i significati simbolici che l’archetipo assume nel tempo. Anche se Fagiolo e Madonna hanno ampiamente dimostrato che le Meraviglie si pongono, oltre che come fatto storico, anche come fatto etico (emblema) e come fatto conoscitivo e costruttivo, ciò non impedisce che a volte si possa giungere anche a negare l’eredità dei singoli Miracula su tutto quel mondo che fiorisce sulle basi della classicità e dei suoi modelli, ai quali torna incessantemente. Esemplare è il caso dei giardini pensili di Babilonia. Pierre Grimal scrive che “i Giardini di Babilonia, a dispetto della loro fama, non hanno esercitato un’influenza nel mondo mediterraneo. Essi appaiono, semmai, una sorta di sfida ammirata più per le difficoltà tecniche superate che per la loro bellezza”[18]. Guardando i giardini di Semiramide con gli occhi delle fonti antiche, essi offrono l’immagine di una montagna incantata a gradoni, sempreverde, che si innalza verso il cielo[19]. In realtà, a differenza di quanto affermato da Grimal, numerosi esempi utilizzano questa utopia architettonica a partire dal Medioevo: la montagna del Purgatorio di Dante - di cui Fagiolo ha già dimostrato l’affinità con le ziggurat mesopotamiche (composte da sette gradoni con rinvii cosmologici) - che culmina col Paradiso terrestre dandoci l’idea di un grande giardino pensile[20]; il palazzo-giardino alla periferia di Sforzinda nel Trattato del Filarete, “scompartito di monti il meglio che fu possibile a scompartigli secondo che stanno nel mappamondo”[21], posto al centro di una struttura che comprende il Labirinto (simbolo di viaggio e di purificazione dell’anima) e l’Isola, è l’elemento finale, il punto di arrivo di un viaggio pieno di ostacoli e riflessioni. Esso richiama l’idea della montagna verde ed è inserito all’interno di quella simbologia della montagna sacra che ascende al cielo, coronata dal paradiso terrestre, nata con Dante; l’Isola di Citera dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, composta da una serie di terrazze digradanti al cui centro è l’Anfiteatro di Venere, le cui gradinate sono in realtà aiuole fiorite[22]. Il modello antico oltrepassa i secoli e propone due elementi su cui gli architetti si concentreranno: il terrazzamento e la fusione fra architettura e giardino. Fra Quattro e Cinquecento una serie di giardini guarderà ai giardini pensili di Babilonia: quelli del Palazzo Ducale di Urbino, della Villa Medicea di Fiesole, di Villa d’Este a Tivoli, l’Imperiale di Pesaro – per fare solo alcuni esempi - fino alla “meraviglia” barocca dell’Isola Bella sul Lago Maggiore[23]. Ma questo modello sarà largamente presente anche nei progetti di architetti del Novecento del calibro di Wright e Le Corbusier[24], fino ai nostri giorni, dove l’architettura dei giardini assume sempre maggiore rilevanza in virtù della necessità di abbinare la continua espansione della città alla perdita di spazi verdi: si pensi all’architetto Emilio Ambasz, che propone una montagna verde a gradoni nel centro di Fukuoka, in Giappone, per il centro culturale “Acros”.

Per ogni Meraviglia è possibile ricostruire un percorso evolutivo. L’archetipo del “Colosso del sole” descritto da Plinio avrà molta fortuna nel corso dei secoli, ripreso in primo luogo nelle operazioni di autocelebrazione che molti sovrani attueranno[25]. La statua di Carete di Lindo è l’immagine del dio Helios, particolarmente venerato a Rodi, divinità universale che dall’alto del cielo vede e sente ogni cosa, simbolo perfetto di grandezza e potenza[26]. Il legame fra la tipologia del colosso (e, più in generale, dell’architettura colossale) con il Sole e la sua simbologia è il perno principale da cui muoveranno tutte le esperienze artistiche legate a questo tema. Proprio al dio Helios si ispira Costantino quando erige nel Foro circolare di Costantinopoli, fra il 330 e il 337, il suo colosso bronzeo. L’imperatore è il nuovo Alessandro Magno, suo modello di riferimento che amava identificarsi proprio col dio del Sole.

Il colosso di Nerone, più antico rispetto a quello costantiniano[27], concepito a scopo autocelebrativo (raffigurava l'imperatore che, nella mano destra, reggeva una sfera d'argento rappresentante il mondo e nella sinistra una spada, segno di dominio), venne restaurato dall’imperatore Vespasiano che sostituì la testa della statua con quella del dio Helios, su cui pose una corona di sette raggi. Neanche un secolo dopo, Commodo tolse la raggiera ed aggiunse alla statua una clava e della pelle di leone: il Colosso vestì quindi i panni di Ercole[28].

Il Colosso è inteso come “monstrum” per la sua imponenza, simbolo della potenza del dio del sole che si riflette nella natura divina dell’imperatore, oggetto di una fabulazione capace di riscattarne la “finitudine” in un mito. Proprio la storia travagliata del colosso di Nerone ci introduce la figura di Ercole, l’eroe greco simbolo di virtù e rettitudine noto per le sue “dodici fatiche”, l’ascesa al cielo e la conquista dell’immortalità. Ercole è una delle figure che, nelle sue rappresentazioni, assume gioco-forza un aspetto colossale. Oltre a ciò, anche per Ercole è possibile rintracciare una peculiare simbologia solare. Scrive Macrobio:


“In realtà che Ercole sia il Sole appare chiaro anche dal nome. Infatti Heraklés che cos’è se non héras Kléos, cioè gloria dell’aria? E cos’altro è la gloria dell’aria se non la luce del sole, con la cui scomparsa si sprofonda nelle tenebre? […] Ercole è davvero il sole che è in tutto e dappertutto. [..] Anche da un fatto avvenuto in altro paese si trae argomento in appoggio alla tesi. Terone […]spinto dalla pazza brama di conquistare il tempio di Ercole, allestì una flotta: gli abitanti di Cadice gli si pararono contro su navi da guerra; si attaccò battaglia e quando le sorti erano ancora indecise, improvvisamente le navi del re si volsero in fuga e immediatamente furono distrutte da un repentino incendio. I pochissimi superstiti fatti prigionieri dichiararono che erano apparsi loro dei leoni sulle prue delle navi di Cadice e le loro navi si erano incendiate all’improvviso, colpite da raggi simili a quelli che sono raffigurati attorno alla testa del Sole”.[29]


Al termine delle sue fatiche, lo spirito di Ercole verrà “assunto” in cielo dove sarà formalmente considerato “figlio di Era e di Zeus” e presentato da Atena al convito degli dei dell’Olimpo. La triade che viene così a formarsi – Zeus, Era ed Ercole – pone in relazione la figura dell’Eroe con quella dell’Uomo universale quale “figlio del Cielo e della Terra”. Questo ruolo centrale fa del semidio la “porta di passaggio” che separa l’universo (il mondo della manifestazione) dagli stati superiori (gli stati informali della manifestazione stessa). In epoca romana il culto di Ercole appare ben radicato e, nel corso dei secoli, il semidio diviene sempre più un exemplum virtutis; la sua figura nuda personifica tutte le virtù ideali[30]. Fra le statue colossali di Ercole è il colosso padovano dell’Ammannati, eretto nel 1544[31]. Il committente, Marco Mantova Benavides, loda l’Ammannati proclamandolo il primo scultore dopo l’antichità ad erigere un colosso di venti pedes[32]: “Più volte parlando del suo Ercole, Marco Mantova precisa che è ispirato dalla tradizione di colossi antichi […]. Colloca il suo Ercole nel contesto della più celebre statua colossale, il Colosso del Sole a Rodi eseguito da Carete da Lindo”[33]. Sempre al XVI secolo risale la costruzione del Parco di Bomarzo (la “Villa delle Meraviglie”) da parte di Pirro Ligorio che, sperimentando il genere del grotesque, crea architetture impossibili (come la casa inclinata) in un contesto popolato da mostri e creature mitologiche[34]: “Tu ch’entri qua con mente parte a parte et dimmi poi se tante meraviglie sien fatte per inganno o pur per arte” recita l’iscrizione della prima Sfinge all’ingresso. La seconda contiene l’elogio delle Meraviglie del mondo: “Chi con ciglia inarcate et labbra strette non va per questo loco manco ammira le famose del mondo moli sette”. Fra queste Meraviglie, il Colosso ispirato alla Meraviglia di Rodi rappresenta la lotta di Ercole e Caco. Nella stele collocata a sinistra della statua leggiamo: “Se Rodi altier già fu del suo colosso pur de quest il mio bosco ancor si gloria e per più non poter fo quanto posso” (Se Rodi fu famosa per il suo colosso, anche il mio bosco è motivo di gloria, e ancor di più poiché non posso fare di più di ciò che posso).

Il mondo contemporaneo offre poi vari esempi di statue colossali: la Statua della Libertà di New York (1880-86)[35], il Cristo Redentore di Rio de Janeiro (1931), per non parlare della statua di Saddam Hussein nel centro di Baghdad, abbattuta nel 2003.

Le Meraviglie producono, a loro volta, rievocazioni fantastiche oltre che reali: “Si può credere che le Meraviglie, nel loro complesso, costituiscano una città ideale o meglio un’idea di città in senso platonico costituita proprio da queste sette utopie architettoniche che plasmano una città mentale, ultraterrena, memoriale”[36]. Fagiolo delinea l’immagine di una città utopica costituita dalle utopie architettoniche per eccellenza. Il tema della città fantastica ritorna nel tempo e non può che far riferimento all’architettura colossale delle Meraviglie: se già Aristofane propone, ne Gli uccelli, la città di Nubibaggiania, localizzata nell’aria, fra cielo e terra, recintata da “una grande muraglia di mattoni cotti, come Babilonia”[37], riprendendo l’immagine della città mesopotamica (la città delle Meraviglie per eccellenza), anche i trattati quattrocenteschi offrono utopie in tal senso, mettendo in rapporto la città presente con un modello astratto proveniente dall’antichità classica. È il caso dei temi “meravigliosi” illustrati nel Trattato di architettura del Filarete: Sforzinda, città-monumento sintesi di Oriente e Occidente, in cui il palazzo-giardino (chiaro rimando ai giardini pensili di Babilonia) è incastonato in un labirinto cosmico che si rifà al leggendario labirinto di Dedalo; Galisforma presenta una Torre-Faro che richiama l’idea ligoriana della Torre della Virtù, della Conoscenza e della Verità[38]. Bisogna poi ricordare le città utopiche nate dalla voglia di riorganizzare la vita sociale, proponendo nuovi valori e obiettivi comunitari: La città del Sole di Campanella fonde la politica con il piano metafisico. Secondo Campanella l’anima è formata da tre principi costituivi: la potenza, la sapienza e l’amore. Riprendendo il motivo di fondo della Repubblica platonica, Campanella sostiene che lo Stato perfetto deve modellarsi sull’anima umana[39]. La città ideale è retta dal Sole, o Metafisico, un sacerdote-filosofo che concentra in sé sia il potere temporale che quello spirituale. Su questa concezione metafisica, Campanella crea l’immagine architettonica della città, posta su un colle e distinta in sette gironi[40]; L’isola di Utopia di Thomas More nasce per contrastare la nuova politica economica dell’Inghilterra del primo Cinquecento: “Le pecore mangiano gli uomini” denuncia More. Utopia è un’isola non segnata nelle carte e comprende 54 città, ognuna circondata da vasti terreni agricoli sui quali sorgono le case dei contadini[41].

Nel Settecento, la poetica del sublime vede un’architettura che “ferma i cuori” creando un rapporto emozionale col fruitore e condividendo con la natura l’immagine di grandezza. Scrive Boullée: “Bisogna quindi che questi monumenti siano concepiti in modo da sfidare la devastazione del tempo. […]. L’architetto deve essere colui che mette in opera la natura”[42]. L’idea di un Universo-Macchina porta architetti del calibro di Boullée a concepire l’architettura colossale (il processo di “amplificazione”) come l’unico mezzo per comporre gli elementi migliori scelti dalla natura in un’unica macchina architettonica[43].

Nell’architettura contemporanea nasce poi il mito delle città-autre, della città liberata dal concetto di luogo, dal legame permanente con esso, proiettandosi in uno spazio astratto riprendendo l’idea della città delle Meraviglie descritta da Fagiolo, “mentale e ultraterrena” (i progetti di Albert Robida del 1883, quelli di Friedman e di Buckminster Fuller prevedono grandi strutture urbane che fungono da supporto alla nuova città e si innalzano al di sopra della città antica)[44]. L’avvento del capitalismo porta successivamente un radicale cambiamento nella visione dell’architettura urbana colossale: “Il colossale nell’architettura della moderna città capitalistica non sarà più come in quella del mondo antico, medievale e rinascimentale […]. Sarà invece sempre più dichiaratamente il “dismorfico prodotto della tecnica” e rappresenterà l’immagine di una effimera, quanto irresponsabile, “corsa al rischio”[45]. Si inaugura una stagione caratterizzata dalla glas architecture e la conseguente “corsa in altezza” caratterizzata da costruzioni come i grattacieli. A partire dai progetti di Paxton per il Crystal Palace nel 1850 nascono poi nel secondo Novecento edifici come la piramide tronca del John Hancock Center (1965-69) e il grattacielo della Sears Tower a Chicago (1970-73), le due torri del World Trade Center a New York (1972-73).

La “corsa in altezza”, al giorno d’oggi, non si è ancora arrestata ed è il perno principale su cui muovono le utopie architettoniche del futuro: “Era l’anno 2074. A New York c’era la crisi degli alloggi”. È questo l’incipit del racconto utopico di Angel Arango, Il giorno in cui New York arrivò in cielo[46]. Si descrive una New York affollata, in cui nessuno riesce più a trovare spazio per vivere. Ernie Madison Gonzalez, per risolvere questo problema, afferma: “Troverò la formula meravigliosa proprio come si è trovata la soluzione a tanti problemi del nostro tempo”. Lavorando sull’antigravità, si arriva a costruire una New York II sopra la città antica. Col passare del tempo, si costruiscono ben otto New York al di sopra della terra fino a toccare il cielo. L’uomo raggiunge ciò che da sempre ha cercato, il mondo divino, poiché agli abitanti di New York VIII spuntano le ali.

Marco Dezzi Bardeschi afferma che “è ozioso tentar di capire se, in questo tema inesauribile delle Meraviglie e del pensar grande, venga prima l’occasione di una progettazione per una committenza concreta o il libero gioco dell’immaginazione. Credo che spesso l’uno vada a stimolare l’altro”[47].

L’idea di Arte della Meraviglia si plasma dopo aver visto tempi, culture e mondi diversi. Partendo dalla riflessione di Filone da Bisanzio, il viaggio nella Meraviglia comprende varie fasi: navigare nel Mediterraneo e cogliere l’itinerario proposto dalle fonti classiche per ammirare gli Spectacula; concepire il metro di valutazione usato dagli antichi per creare il canone, ossia la genialità tecnologica nell’utilizzo dei materiali usati per la costruzione (Piramidi come prima costruzione in pietra, le Mura di Babilonia col bitume come legante, il Colosso di Rodi in bronzo e così via) intrecciando Filosofia, Scienza e Arte per ricostruire l’interdisciplinarità con cui viene delineato il modello. Questo itinerario, in effetti, è scandito in tre tappe - Mirabilia, Miracula e Spectacula - che richiamano le tre fasi della ricerca scientifica (vedere il fenomeno, ammirarlo, capirlo e riproporlo); scorrere il corso dei secoli e ricostruire il percorso di ogni Meraviglia secondo i due processi di ricomposizione oggettiva e soggettiva, viaggiando su due binari paralleli: la ricomposizione fantastica (utopia) che anticipa e stimola quella reale.




[1] M. Fagiolo, Le Meraviglie e il meraviglioso, in “Psicon”, n. 7, III, 1976, p. 3.


[2] Numerosi sono gli interventi di Marcello Fagiolo sul tema delle Meraviglie. Tra questi ne citiamo alcuni: M. Fagiolo, Le Meraviglie e il meraviglioso, in “Psicon”, Rivista internazionale di architettura, n. 7, III, Firenze 1976; Sulle Meraviglie bibliche: M. Fagiolo, Archetipi biblici dall’Eden alla Gerusalemme celeste, in Lo specchio del Paradiso: giardino e teatro dall'antico al Novecento, pp. 24-30, Silvana editoriale, Milano 1998; Sull’archetipo di Atlantide e dell’isola: M. Fagiolo, Da Atlantide a Citera: gli archetipi del mistero rinascimentale dell’Isola, in R. Lodari, a cura di, Il giardino e il lago, specchi d’acqua fra illusione e realtà, Gangemi editore, Roma 2007; Sul mondo simbolico di Dante: M. Fagiolo, Il mondo simbolico della Divina Commedia fra Illuminismo e simbolismo, in AA.VV., Pagine di Dante: le edizioni della Divina Commedia dal torchio al computer, Perugia 1989.


[3] M. Fagiolo, Le Meraviglie e il meraviglioso, in “Psicon”, Rivista internazionale di architettura, n. 7, III, Firenze 1976, p. 5.


[4] Vedi J. Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Bari 1988.


[5] Antipatro di Sidone, La meraviglia delle meraviglie, in F.M. Pontani (a cura di), Antologia Palatina, vol. III, libro IX, 58, Torino 1980.


[6] A. Quondam, Le rime cristiane di Luca Contile, in “Atti e memorie dell’Arcadia”, terza serie, vol. VI, fasc. 3, 1974, p. 236, sonetto LXV.


[7] Aristotele, Metafisica, I, 1, 980 a, 1; II, 2, 982 b, 17-21


[8] Vedi E. Berti, In principio era la meraviglia: le grandi questioni della filosofia antica, Bari 2007.


[9] Ivi, pp. 9-15.


[10] Vedi M.L. Madonna, “Septem mundi miracula” come Templi della Virtù. Pirro Ligorio e l’interpretazione cinquecentesca delle Meraviglie del Mondo, in “Psicon”, Rivista internazionale di architettura, n. 7, III, Firenze 1976.


[11] M. Brusatin, Arte della meraviglia, Torino 1986, pp. 7-8.


[12] Filone da Bisanzio, De septem urbis spectaculis, 225 a.C. ca.; cit. in V. Rossi, Le sette meraviglie del mondo, Pisa 1985, p. 12.


[13] M. Fagiolo, op.cit., p. 5.


[14] E. Panofsky, Idea, contributo alla storia dell’estetica, La Nuova Italia, Torino 1952, p. 4.


[15] Cesariano, Di Lucio Vitruvio Pollione De Architectura, Como 1521, p. 141r, cit. in M.L. Madonna, op. cit., p. 25.


[16] M.L. Madonna, op. cit., pp. 25-29.


[17] Vedi M. Fagiolo, Le Meraviglie e il meraviglioso, in “Psicon”, Rivista internazionale di architettura, n. 7, III, Firenze 1976, pp. 3-4.


[18] P. Grimal, L’arte dei giardini, ed. Roma 2000, p. 11.


[19] Le fonti antiche sui giardini pensili di Babilonia sono: Q.C. Rufo, Storia di Alessandro, V, I; Diodoro Siculo, Biblioteca storica, V, 10; Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, X libro; Strabone, Geografia, Libro XVI; Berosso, Storia di Babilonia, III; Filone Bizantino, De septem orbis spectaculis.


[20] M. Fagiolo, Il mondo simbolico della Divina Commedia fra Illuminismo e simbolismo, in Pagine di Dante: le edizioni della Divina Commedia dal torchio al computer, Perugia 1989, p. 193.


[21] A. Averlino, Trattato di architettura, Libro XV, A. M. Finoli-L. Grassi, a cura di, Edizioni Il polifilo, Milano 1972, p. 452.


[22] Si veda S. Fogliati, D. Dutto. Il giardino di Polifilo, Milano 2002.


[23] Vedi M. Fagiolo, I teatri dell’acqua tra Cinquecento e Seicento, in V. Cazzato, M Fagiolo, M. A. Giusti, Lo specchio del Paradiso. Giardino e teatro dall’Antico al Novecento, Cinisello Balsamo 1997, p. 56.


[24]In “Verso un’architettura”, pubblicato nel 1923, Le Corbusier espone i suoi celebri cinque punti alla base del nuovo modo di concepire lo spazio architettonico e di costruire un'abitazione con cemento armato. Uno di questi prevede proprio il tetto-giardino (tetto a terrazza) che restituisce all'uomo il verde. Cfr. H. Allen Brooks, Le Corbusier (1887-1965), Electa, Milano 1993.


[25] Per il tema del colosso e dell’architettura colossale vedi “Psicon”, Rivista internazionale di architettura, Il colossale in architettura, anno III, n° 6, Firenze 1976. All’interno di questo tema smisurato, si cercherà di costruire un sintetico percorso che riassume la portata del fenomeno, dilatato in millenni di storia.


[26] La simbologia solare affiancata al tema del colosso non è esclusiva dell’esperienza di Rodi, ma si ritrova anche in altre culture, come quella buddista: “La figura antropomorfa del Buddha sincretizza il concetto filosofico indiano di un Buddha metafisico (cioè astrazione, principio assoluto) […]. Il più antico dei colossi (del complesso di Bamyan, nell’attuale Afghanistan) è alto 35 metri; realizzato per essere ammirato dal basso […] sembra voler proiettare chi lo osserva verso il cielo […]. I principii complementari giorno-notte, sole-luna, costituiscono la congiunzione dei due opposti dialettici, annullandone la dualità e suggerendo la pienezza trascendentale del Principio”. G. Bruckmann Amirian, I Buddha colossali e il complesso monastico di Bamyan, in Psicon, op. cit., pp. 21-25.


[27] Il colosso di Nerone fu costruito dallo scultore greco Zenodoro nella prima metà del I secolo dopo Cristo.


[28] Le notizie sulla storia del colosso di Nerone sono sparse in vari testi. Fra questi: E. Champlin, Nerone, traduzione di Mario Carpitella, Laterza, Bari 2005; A. Levi, Nerone e i suoi tempi, Cisalpino editore, Milano 1949; Plinio il Vecchio, Storia naturale, G. B. Conte, a cura di, Einaudi, Torino 1982; Svetonio, Vite dei dodici Cesari, G. Gaggero, a cura di, Rusconi, Milano 1990.


[29] Macrobio, Saturnalia, I, 20, 10.


[30]Le vicende di Ercole sono anche lette in chiave cristiana. Il cardinale Ippolito II D’Este, nel costruire il percorso della grandiosa Villa d’Este a Tivoli (1568), si rifà proprio alla figura dell’eroe greco (mitico fondatore degli Estensi). Ippolito sceglie la via della virtù e prefigura per sé un destino simile a quello di Ercole, l’immortalità dell’anima nel Paradiso. Questo può avvenire solo se si sceglie la via giusta da percorrere: “Il punto centrale del tema legato ad Ercole è la fontana del Dragone, che rievoca l’episodio del giardino delle Esperidi, ma può anche essere letta in chiave cristiana, come ingresso al giardino dell’Eden, paradiso terrestre”. M. Azzi Visentini, La villa in Italia: Quattrocento e Cinquecento, Electa editore, Milano 1995, p. 180.


[31] Vedi C. Davis, “Colossum facere ausus est”: l’apoteosi d’Ercole e il colosso padovano dell’Ammannati, in “Psicon”, op. cit., n° 6, pp. 33-47.


[32] “Qui primus post antiquos etiam Colossum facere ausus est, lapideum in aedibus nostris, altitudinis pedum 20”, cit. in C. Davis, op. cit., p. 35.


[33] C. Davis, op. cit., p. 41.


[34] Sul Giardino di Bomarzo: M. Calvesi, Il sacro bosco di Bomarzo, De Luca editore, Roma 1956; M. Berberi, Bomarzo: un giardino alchemico del Cinquecento, Nuovi orizzonti editore, Milano 2000.


[35] La statua della Libertà è chiamata “The New Colossus” nel sonetto di Emma Lazarus inciso sulla lastra in bronzo posta sul piedistallo della statua nel 1903. Nei suoi attributi (fiaccola e corona con sette punte) anch’essa ricorda Helios e il Colosso di Carete da Lindo.


[36] M. Fagiolo, op. cit., p. 4.


[37] Aristofane, Gli uccelli, in B. Marzullo (a cura di), Le commedie di Aristofane, Laterza, Bari 1989, vol. II, p. 304.


[38] Vedi A. Filarete, op. cit.; M. Fagiolo, Il castello delle Meraviglie: nuove ipotesi sulla genesi di Sforzinda e su Galisforma, in Studi in onore di G. De Angelis D’Ossat, numero speciale dei “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, Roma 1987, pp. 187-96.


[39] Anche nella costruzione di città colossali esiste un esplicito rimando al Sole, come nel caso di Campanella.


[40] “Sorge nell'alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del monte, il quale è tanto, che la città fa due miglia di diametro e più, e viene ad essere sette miglia di circolo; ma, per la levatura, più abitazioni ha, che si fosse in piano. È la città distinta in sette gironi grandissimi, nominati dalli sette pianeti, e s'entra dall'uno all'altro per quattro strade e per quattro porte, alli quattro angoli del mondo spettanti; ma sta in modo che, se fosse espugnato il primo girone, bisogna più travaglio al secondo e poi più; talché sette fiate bisogna espugnarla per vincerla” T. Campanella, La città del Sole, L. Firpo, a cura di, Laterza, Bari 1997, p. 101.


[41] T. More, L’utopia, o la forma migliore di repubblica, Laterza, Bari 1994.


[42] E-L Boullée, Architettura. Saggio sull’arte, traduzione di A. Rossi, Padova 1967, cit. in R. Pacciani, Retorica e sublime aspetti del “progettar grande” di Boullée, in “Psicon”, op. cit., n° 6, pp. 52-55.


[43] Si vedano i progetti per il Cenotafio di Newton del 1784 (in cui l’architetto si propone di realizzare la più grande delle immagini, l’immensità) o per il Tempio della Ragione del 1793.


[44] Vedi R. Cirio, P. Favari, Utopia rivisitata, Milano 1974, pp. 18-30.


[45] P. Melis, Architettura e revival del cristallo nella città contemporanea da J. Paxton a K. Roche, in “Psicon”, op. cit., p. 91.


[46] A. Arango, Il giorno in cui New York arrivò in cielo, in Racconti cubani, 1959, cit. in R. Cirio, P. favari, a cura di, Utopia rivisitata, Bompiani editore, Milano 1974, pp. 168-171.


[47] M. Dezzi Bardeschi, Dal mito della costruzione all’arcano della distruzione, in “Psicon”, Rivista internazionale di architettura, n. 7, III, Firenze 1976, p. 12.






Post recenti
Search By Tags
Non ci sono ancora tag.
bottom of page